I giovani! Che cosa sono i giovani? Una categoria sociologica, credo. Forse sono quelli che devono consumare i migliori anni della loro vita facendo file per concorsi truccati per ottenere un posto di lavoro e diventare smunti e grigi aspettando di invecchiare per essere liberati dalla pensione? Oppure sono quella fascia sociale particolarmente aperta e sensibile al mercato dell'eroina controllato da mafia e politici e poi "salvata" dall'ancor più lugubre istituzione carceraria o manicomiale? 0 forse sono quella categoria umana "più sana" alla quale si rivolge la pubblicità per l'arruolamento nell'esercito: "vieni con noi e diventerai un tecnico", cioè carne da cannone? Ma sopratutto essere giovani è obbligatorio a tutte le età, come quei bei ragazzi gaudenti, abbronzati, seducenti, già "arrivati", che si vedono alla TV, che sorridono e consumano automobili, birra, preservativi, telefonate interurbane e tutto il mucchio di cazzate moderne sul quale ci dovremmo arrampicare anche noi, che purtroppo siamo veri. Personalmente ho sempre accuratamente evitato di far parte di questa categoria di giovani creata da politici, pubblicitari, generali e poliziotti di tutte le specie.
Quando negli anni '70 le masse giovanili erano considerate una speciale categoria di proletari (sangue fresco, rabbia in corpo, indignazione automatica), discografici, editori e organizzatori di festival alternativi cercavano di vender loro libri, dischi, polli e panini "di sinistra" per "sovvenzionare le organizzazioni politiche". Quei soldi, i militanti di allora, dicevano di non averli mai rivisti: "ci sono 150.000 persone e non ci hanno messo neppure l'acqua, nemmeno i cessi..." e non stettero al gioco: forzarono gli sportelli dei camion frigoriferi dei polli e, invece di pagarli, mangiarono gratis. Sto raccontando quello che successe al Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro di Milano. Mentre gli organizzatori avevano pensato di fare una festa sulla testa di quei giovani, i giovani fecero la festa a loro, mostrando di non essere una "massa giovanile" ma tanti individui capaci di organizzarsi per lottare; con il gusto di una nuova solidarietà; di esprimere il dissenso vivendo con passione la propria diversità; erigendo una barricata e schierandosi dall'altra parte.
La "questione giovanile" oggi, dope tanti anni di imbecillità del riflusso, di disassuefazione al pensiero critico, da quando alla fine degli anni '70 furono censurati gli ultimi naufraghi di quella popolazione che una volta produceva dissenso, è fondamentalmente quella di una generazione senza memoria storica.
Che modelli hanno i giovani, anche "i più svegli", che, mettiamo, si vogliono mettere a fare i registi? Li conosciamo bene questi modelli: intellettuali e politici latitanti da vent'anni dai problemi reali del Paese, rassegnati rispetto ai loro desideri giovanili e sottomessi al padrone che li stipendia; che oggi cambiano canale infastiditi se il telegiornale manda in onda la Yugoslavia o la Somalia e che, ieri, non hanno mai nemmeno provato a capire qualcosa del dramma che si svolgeva negli anni '70, quando l'Italia era spaccata verticalmente in due, quando i "proiettili vaganti" esplosi fra Stato e BR finivano per colpire quelli che, al di la degli schieramenti ideologici, cercavano di costruire una vita nuova radicalmente diversa dallo squallore della burocrazia di Stato e dalla mentalità pistolera. Io stesso ho "disertato": ho preferito piantare il cinema e andare a lavorare all'estero; ho smesso per un lungo periodo di far circolare i documenti-video sulle lotte giovanili, documenti che le rilanciavano ad ogni proiezione, costretto prima dalla cesura della rai e poi dall'insopportabile sensazione di vomito che mi procuravano gli incontri con i produttori quando mi proponevano film sardonici sugli anni 70. Mentre moltissimi protagonisti di quegli anni erano chiusi in galera, i partiti, attraverso i loro produttori cinematografici, dovevano rassicurare il babbo e la mamma che i loro figli avevano scherzato, che erano bravi ragazzi innocui e coglioni e che in fondo non era successo niente. C'è chi, mettendo in scena commedie spiritose su quegli anni tragici, ci hanno fatto carriera. E nemmeno si vergogna. I film di questi autori sono stati i primi esempi di cinema di regime, del regime che stava prendendo il potere, i primi esempi di autocensura di successo. E, ciò che è più grave, questi film hanno avuto la funzione di trasmettere alle generazioni nuove una memoria storica falsificata.
Che succede oggi quando un giovanotto o una ragazza incontrano un produttore cinematografico? Questi consiglia paternamente quanti metri di culi, tette, stupri, sparatorie, agonie, siringhe, massacri, giarrettiere, poliziotti e mafiosi, extracomunitari, lagrime e malati terminali bisogna inserire nella sceneggiatura perché se no "il film non incassa". Si finisce sempre per sottostare a questa regola anche con le migliori intenzioni: produzione e regia calcolando in denaro il costo del film, calcolano in denaro anche la crescita dei rapporti umani che vengono filmati. Sottomessa alla dittatura del capitale ed esercitando a sua volta la propria autorità sugli attori, la regia incastra e deforma le passioni, i desideri, l'amore, la disperazione, in una dimensione cinematografica contenuta nei tempi e nei modi consentiti dall'economia che ha il profitto come ultimo traguardo. I linguaggi della vita sono valutati in denaro e, a film confezionato, il linguaggio della vita sarà diventato il linguaggio del denaro.
Negli anni 60 e 70, durante le assemblee nelle università occupate, ogni tanto qualcuno afferrava il microfono e comunicava ai compagni la sua preoccupazione che l'università non garantiva "sbocchi professionali", fra i fischi e le pernacchie di tutti. Il ridicolo di questi episodi oggi non è più così evidente e va spiegato: era convinzione della sinistra più radicale che la scuola era già l'anticamera della fabbrica. Preparava già gli scolari alla passività del lavoro salariato. Era già un luogo di sfruttamento. Per questo combattere il capitalismo "che deruba gli uomini e le donne della forza lavoro per rigettarne la sostanza umana come inutile spazzatura" significava porsi da quella parte della barricata dove si faceva guerra sia alla fabbrica che alla scuola.
Allora, se ci sono giovani ansiosi di realizzare il loro filmetto per ricalcare le orme dei grandi registi e divi che ci hanno finora sommerso con la loro merda, e che hanno l'ambizione di ciabattare nei salotti dorati dell'imbecillità frequentati dai loro maestri e padri spirituali, sarà bene per tutti che desistano, se non altro, per non coprirsi del ridicolo di cui si coprirono i loro antenati studenti, quelli degli "sbocchi professionali": sappiamo che fine hanno fatto questi ingenui adulatori del potere. Se poi ci sono giovani che vogliono veramente trasformare la propria vita, rifondare una teoria critica che segni la demarcazione tra la propria differenza conquistata giorno per giorno e l'insignificante cultura dominante, se hanno voglia di inventare modi di lavorazione sul set che superino i ruoli e i metodi produttivi da fabbrichetta tipici del cinema di cassetta, se hanno voglia di creare un cinema profondamente diverso e da qui far nascere un pubblico diverso, a cominciare dai circuiti distributivi, ecco, a questi giovani mi viene voglia di suggerire che piuttosto che sottoporsi all'umiliazione di chiedere i consigli e l'elemosina ai produttori, i finanziamenti potrebbero essere più dignitosamente trovati ricalcando le gesta dei ragazzi poveri che espropriarono il Parco Lambro. Se poi andasse male, tanto meglio: in carcere si imparano cose che al Centro Sperimentale di Cinematografia neppure si sognano di insegnare.